mercoledì 28 gennaio 2009

Lacrime che hanno visto


Free Gaza Movement, 27 gennaio 2009


pubblicato su Il Manifesto

Ho varcato la soglia di casa, ad Almina, dinnanzi al porto di Gaza city, dopo parecchi giorni. Tutto è rimasto come l'avevo lasciato, la bombola del gas continua a soffrire di anoressia, e rimpinguarla costa troppo, la corrente elettrica resta tagliata da una cesoia straniera. E' mutato il panorama godibile dalla mie finestre, non riconcilia più il morale affranto dalla miseria di una vita sotto assedio, ma rigira il coltello nella piaga di un trauma irremovibile: la testimonianza di un massacro. Laddove c'era la stazione dei pompieri, a venti metri dal mio uscio, c'è un enorme cratere in cui dei bimbi bighellano come per esorcizzare il terrore dei genitori. Il richiamo alla preghiera del pomeriggio non ha più il conforto del salmodiare del muezzin a cui ero abituato. Chissà dove è finito, se è riuscito a sopravvivere nella sommità di uno dei pochi minareti rimasti in piedi. L'ultima volta che lo avevo ascoltato, questo muezzin anonimo era stato costretto a interrompere la liturgia solenne del suo canto per una tosse catarrosa. Una tosse che conosco bene anche io, i gas delle bombe a Gaza non hanno risparmiato nessuno. Sotto una porta-finestra che dà su un piccolo balcone ho trovato un messaggio come fosse stato infilato da una mano amica. Di questi stessi volantini il giardino e la strada erano ricoperti. Lasciati cadere dagli aerei israeliani intimano alla popolazione palestinese a rimanere allerta, a prendere coscienza dei muri che hanno occhi e orecchi. "Al minimo atto offensivo contro Israele torneremo a invadere la Striscia di Gaza, quello che avete vissuto in questi giorni non è nulla a confronto di ciò che vi aspetta". Per strada alcuni ragazzi avevano raccolto questi volantini e ripiegati in modo da farne aeroplanini di carta, cercavano di rimandare il messaggio al mittente. Ahmed al telefono, invece, mi ha raccontato di un altro gioco dei ragazzi di Gaza: fino a qualche giorno fa si divertivano a riattizzare incendi semplicemente calciando i frammenti delle bombe al fosforo bianco, di cui tutta la Striscia è stata disseminata. I residui di questi ordigni ad alto potenziale chimico pare abbiano facoltà incendiarie imperiture: raccolti dopo diversi giorni dalla loro detonazione e agitati, riescono ancora a infiammarsi. I paramedici dell'ospedale Al Quds raccontano come hanno rinunciato subito a cercare di spegnere gli incendi provocati da queste bombe illegali, le fiamme parevano alimentarsi al contatto con l'acqua. "Il frutto di tutta la merda che ci hanno tirato addosso in queste tre settimane, lo raccoglieremo nel prossimo futuro in tumori e neonati deformati", mi ha detto Munir, medico dell'ospedale Al Shifa. Anche il vicinato di Gaza pare preoccuparsi del massiccio impiego di queste armi vietate da tutte le convenzioni internazionali. A Sderot come ad Ashkelon, i cittadini israeliani hanno formalmente richiesto al loro governo delucidazioni circa le armi utilizzate per massacrarci: è evidente che l'uranio impoverito e il fosforo bianco sparso in maniera criminale sul fazzoletto di terra di Gaza non farà distinzione nel causare malattie genetiche fra ebrei e musulmani. Dovremmo essere in piena tregua in corso, fatto sta che oggi nel mio letto mi ha destato dal sonno il boato sordo del cannoneggiare di navi da guerra, esattamente come qualche giorno fa. Alcuni temerari pescatori palestinesi stavano provando a lasciare il porto muniti di reti sopra di barchette minuscole. La marina israeliana li ha respinti indietro. Ormai l'unico pesce di cui ci si può cibare a Gaza sono le scatolette di tonno egiziano passate per i tunnel più di un mese fa. Ieri ancora due "danni collaterali" alle bombe israeliane. Ad est di Gaza city due bambini sono saltati in aria giocando con un ordigno inesploso. Testimoni che abbiamo raggiunto parlano di mine posizionate dinnanzi alle macerie delle case di Tal el Hawa. Alcuni artificieri inviati da Hamas le hanno disinnescate... e, dalla cura con cui ho visto che le caricavano sul loro fuoristrada, credo che presto anche le brigate di al Qassam cercheranno di restituire quei messaggi di morte al loro legittimo proprietario. Sul tetto della casa di Naema il confine israelo-palestinese non è mai stato così rimarcato. Da una parte le colline verdeggianti costantemente irrigate dei Kibbutz israeliani, dall'altra l'arsura di una terra saccheggiata di sorgenti e pascoli. Naema mi havoluto raccontare dei suoi ultimi giorni, una testimonianza olfattiva, tattile e uditiva del massacro, non oculare perché Naema è non vedente. I soldati hanno intimato l'evacuazione del suo villaggio solo una manciata di minuti prima dell'incursione. Gli uomini si sono caricati sulle spalle i bambini piccoli e con le donne sono fuggiti via. Noema ha scelto di restare per non rallentare la loro fuga, si è rifugiata nella sua casa credendosi al sicuro, ed ha accolto con sè i suoi vicini di casa che non sapevano dove rifugiarsi: tre donne, un'anziana, e un vecchio paralitico. Tank e bulldozer hanno sconfinato e iniziato a seminare morte, divorandosi ettaro per ettaro, sino ad arrestarsi dinnanzi all'abitazione di Noema. L'edificio in cui vive è il più alto del villaggio perché posto sopra una collinetta, i soldati di Tshal ritenendolo strategicamente posizionato sono entrati e lo hanno occupato per due settimane. "Sono entrati e puntandoci le armi addosso ci hanno spinto in una piccola stanza, dove ci hanno tenuti rinchiusi a chiave per undici giorni." Noema continua il racconto: "Durante tutto questo tempo solo due volte ci hanno portato da bere, e il cibo era rappresentato dall'avanzo del rancio dei soldati. Non ci hanno mai consentito di andare in bagno e abbiamo dovuto fare i nostri bisogni in un angolo della stanza. Non ci consentivano di parlare, e venivano a malmenarci quando la notte in cerchio cercavamo di pregare per darci coraggio. A volte venivano a minacciarci facendoci sentire sul corpo le fredde canne delle loro armi, ci intimavano a confessare la nostra alleanza ad Hamas, altrimenti ci avrebbero ucciso. Ho dato loro il mio telefono cellulare, affinché potessero controllare la mia agenda e le telefonate effettuate. Anche questo gesto non ha arrestato la loro collera." Al termine dell'undicesimo giorno di prigionia la croce rossa internazionale è finalmente riuscita ad arrivare sul luogo e a trarre in libertà i sei palestinesi dai loro carcerieri. "Non ci hanno permesso di raccogliere niente, a me neanche gli occhiali da sole", conclude il suo racconto Noema, aggiungendo che una volta tornati a riprendere possesso della loro abitazione, si sono resi conto del furto dei soldati: si sono portati via tutto il loro oro e i soldi nascosti, dopo avere distrutto i loro pochi beni, due televisori, una radio, un frigorifero, i pannelli solari sul tetto. Ho visto lacrimare gli occhi di quella donna nascosti sotto i suoi nuovi occhiali scuri e mi sono parsi i più vividi che abbia mai veduto. In realtà Noema ha scorto coi suoi spenti occhi molte più cose che una giovane della sua età avrà mai l'occasione di vedere, se non ha la cattiva sorte di nascere sopra questa terra martoriata.


Restiamo umani.

Vik

Vittorio Arrigoni in Gaza

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