di Aurora Franceschelli pubblicato su www.ragionpolitica.it
Se da una parte, in questo momento, si tendono ad enfatizzare gli effetti immediatamente tangibili determinati dalla crisi finanziaria, dall'altra occorrerebbe sottolineare come vi sia anche un aspetto, il fallimento dell'attuale modello di sviluppo americano, non immediatamente quantificabile. Quest'ultimo aspetto, potenzialmente pericoloso, potrebbe gravare sul Sistema statunitense inficiandone il suo prestigioso brand. In sostanza, su chi sarà chiamato a guidare per i prossimi quattro anni il Paese a stelle e strisce graverà un compito non indifferente: risollevare l'attrattiva del brand America sarà una precondizione per poter rilanciare l'intero sistema.
Mentre il crack di Wall Street sta determinando un'inevitabile politica di interventismo globalizzato da parte dei singoli governi, volto a evitare che l'implosione del sistema finanziario si scateni sul terreno dell'economia reale, in Italia, se da una parte si respira l'aria della crisi mondiale e tira aria di recessione, dall'altra vi è la consapevolezza che il nostro sistema macroeconomico, seppur in difficoltà per una crescita quasi a zero, non sia fondato su una ricchezza virtuale, ma reale.
Certo, i dati di Bankitalia confermano, come era facile attendersi in questo periodo, un trend negativo, secondo il quale la crescita ristagna, la produzione industriale è prevista in frenata e i consumi delle famiglie si starebbero contraendo. In sostanza qui da noi, a differenza di altro Paesi Ue, nei momenti difficili le famiglie tendono, più che ad indebitarsi, ad aumentare le quote di risparmio, e questo approccio parsimonioso, ovviamente, va a scapito dei consumi.
Se da una parte, in questo momento, si tendono ad enfatizzare gli effetti immediatamente tangibili determinati dalla crisi finanziaria, dall'altra occorrerebbe sottolineare come vi sia anche un aspetto, il fallimento dell'attuale modello di sviluppo americano, non immediatamente quantificabile. Quest'ultimo aspetto, potenzialmente pericoloso, potrebbe gravare sul Sistema statunitense inficiandone il suo prestigioso brand. In sostanza, su chi sarà chiamato a guidare per i prossimi quattro anni il Paese a stelle e strisce graverà un compito non indifferente: risollevare l'attrattiva del brand America sarà una precondizione per poter rilanciare l'intero sistema.
Mentre il crack di Wall Street sta determinando un'inevitabile politica di interventismo globalizzato da parte dei singoli governi, volto a evitare che l'implosione del sistema finanziario si scateni sul terreno dell'economia reale, in Italia, se da una parte si respira l'aria della crisi mondiale e tira aria di recessione, dall'altra vi è la consapevolezza che il nostro sistema macroeconomico, seppur in difficoltà per una crescita quasi a zero, non sia fondato su una ricchezza virtuale, ma reale.
Certo, i dati di Bankitalia confermano, come era facile attendersi in questo periodo, un trend negativo, secondo il quale la crescita ristagna, la produzione industriale è prevista in frenata e i consumi delle famiglie si starebbero contraendo. In sostanza qui da noi, a differenza di altro Paesi Ue, nei momenti difficili le famiglie tendono, più che ad indebitarsi, ad aumentare le quote di risparmio, e questo approccio parsimonioso, ovviamente, va a scapito dei consumi.
Se da una parte non si può negare che l'Italia versi in condizioni di difficoltà a causa di un debito pubblico molto elevato e ad una crescita inferiore rispetto a quella manifestata da altri Paesi, dall'altra bisogna riconoscere che nel Belpaese, a differenza di altre realtà statuali, la portata dei debiti del settore finanziario, delle famiglie e delle imprese - complice un sistema di regolamentazione bancaria più rigido - è nettamente inferiore.
Questo aspetto è immediatamente evidente se osserviamo, ad esempio, la situazione che si registra attorno alla sottoscrizione dei mutui: mentre in Italia i prestiti totali concessi dalle banche per questo tipo di finanziamento sono quantificabili con una cifra che si attesta attorno al 30% del Pil, altrove che accade? Negli Stati Uniti, così come in Gran Bretagna e Danimarca, questa cifra supera il 100% del Pil; in Spagna, toccata anch'essa dalla bolla immobiliare, in Irlanda e Olanda supera l'80%.
Le nostre imprese, inoltre, sono meno indebitate rispetto a quelle di quei Paesi che, per crescere, si sono affidati alla somministrazione delle «droghe» intossicanti della tecno finanza, le quali poi hanno finito per sovradimensionare uno sviluppo che in realtà si è rivelato virtuale. In sostanza è accaduto che la finanza speculativa abbia finito per «arrugginire» gli ingranaggi che facevano funzionare il meccanismo di creazione della ricchezza.
Il paradosso che caratterizza il caso italiano sta nel fatto che, se fino ad ora il nostro sistema Paese era oggetto di critiche accese contro la presunta debolezza di un tessuto produttivo troppo parcellizzato e improntato soprattutto al manifatturiero, ora, con questa crisi in atto (che riabilita tutto ciò che è sinonimo di ricchezza tangibile), la situazione si è ribaltata. Le nostre imprese stanno dimostrando, e lo confermano i dati, di essere vitali e competitive proprio perché hanno saputo rinnovarsi: tra il 2005 e il 2007, infatti, investendo sulla qualità, hanno accresciuto del 20% le loro quote di export, battendo la concorrenza di Spagna e Francia. L'Italia, inoltre, si sta rivelando molto competitiva verso mercati emergenti quali la Cina, dove ha superato la quota di esportazioni della Gran Bretagna, e l'India, verso la quale esportiamo più della Francia e siamo secondi solo alla Germania. In Russia, ad esempio, superiamo addirittura le esportazioni di Francia e Gran Bretagna messe assieme.
Questo aspetto è immediatamente evidente se osserviamo, ad esempio, la situazione che si registra attorno alla sottoscrizione dei mutui: mentre in Italia i prestiti totali concessi dalle banche per questo tipo di finanziamento sono quantificabili con una cifra che si attesta attorno al 30% del Pil, altrove che accade? Negli Stati Uniti, così come in Gran Bretagna e Danimarca, questa cifra supera il 100% del Pil; in Spagna, toccata anch'essa dalla bolla immobiliare, in Irlanda e Olanda supera l'80%.
Le nostre imprese, inoltre, sono meno indebitate rispetto a quelle di quei Paesi che, per crescere, si sono affidati alla somministrazione delle «droghe» intossicanti della tecno finanza, le quali poi hanno finito per sovradimensionare uno sviluppo che in realtà si è rivelato virtuale. In sostanza è accaduto che la finanza speculativa abbia finito per «arrugginire» gli ingranaggi che facevano funzionare il meccanismo di creazione della ricchezza.
Il paradosso che caratterizza il caso italiano sta nel fatto che, se fino ad ora il nostro sistema Paese era oggetto di critiche accese contro la presunta debolezza di un tessuto produttivo troppo parcellizzato e improntato soprattutto al manifatturiero, ora, con questa crisi in atto (che riabilita tutto ciò che è sinonimo di ricchezza tangibile), la situazione si è ribaltata. Le nostre imprese stanno dimostrando, e lo confermano i dati, di essere vitali e competitive proprio perché hanno saputo rinnovarsi: tra il 2005 e il 2007, infatti, investendo sulla qualità, hanno accresciuto del 20% le loro quote di export, battendo la concorrenza di Spagna e Francia. L'Italia, inoltre, si sta rivelando molto competitiva verso mercati emergenti quali la Cina, dove ha superato la quota di esportazioni della Gran Bretagna, e l'India, verso la quale esportiamo più della Francia e siamo secondi solo alla Germania. In Russia, ad esempio, superiamo addirittura le esportazioni di Francia e Gran Bretagna messe assieme.
Il Governo, inoltre, si sta adoperando affinchè il nostro tessuto produttivo non venga intaccato dai «fondi sovrani». Sarebbero soprattutto i Paesi produttori di petrolio, proprietari di tali fondi, che sarebbero pronti ad intervenire nel mercato italiano, attraverso Opa ostili, proprio alla luce del fatto che, in questo momento, vi sono aziende nostrane la cui quotazione non corrispone al reale valore di mercato. Ecco perchè il nostro Esecutivo, con lungimiranza, sta predisponendo delle misure di legge che consentano a tali aziende di difendersi. Molto probabilmente, come ha annunciato Tremonti, lo «scudo» per le società italiane sarà varato al più presto con un emendamento che verrà inserito in un decreto già varato.
Ecco che, in un contesto nel quale, per forza di cose, anche la nostra economia sarà intaccata dai rigurgiti della crisi mondiale, lo scenario, per il nostro Paese, sembra essere un po' meno fosco: la luce, così come la nostra storia ci insegna, potrebbe essere rappresentata, sempre e comunque, dai valori che intrinsecamente appartengono alla cultura e alla tradizione italiana: la creatività, la cura dei particolari, la qualità e lo stile Made in Italy potrebbero essere, così come è sempre accaduto nei momenti difficili, il volano per una ripartenza decisa del nostro sistema produttivo. Un sistema che, se sino ad ora ha mostrato segni di difficoltà, ora, in un contesto globale dove lo sviluppo sfrenato di molti Paesi si è rivelato una bolla, potrebbe riconquistare il posto che merita.
Aurora Franceschelli
Nessun commento:
Posta un commento